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mercoledì 2 maggio 2012

Il giardino fuori dal tempo

Qualche anno fa, frequentando la community de ilmiolibro, partecipai a un contest che richiedeva di scrivere un racconto partendo da un incipit assegnato. 
Eccolo qui (leggermente rimaneggiato) per voi, amici webnauti.
Buona lettura.


Il giardino fuori dal tempo
di Molly Greenhouse

Era un giovedì di marzo. Portai a casa l’ennesimo brutto voto, suscitando le ire di mio padre.
“Da domani starai tutto il giorno con me. Così imparerai a fare il tuo dovere e forse ti renderai conto di quanto è faticoso lavorare!”
Mio padre faceva il giardiniere e lavorava su commissione. Andava a potare piante, rastrellare foglie e tagliare erba con la sua potente falciatrice. Il giorno successivo doveva occuparsi niente meno che del giardino dei terribili Panico.
I Panico erano la famiglia più ricca e potente della collina e di loro in paese si raccontavano cose tremende. A me facevano paura due cose dei Panico: il nome, che evocava atmosfere misteriose e terribili; e il giardino della grande villa, perché era chiuso da una muraglia gigantesca dietro la quale chissà che cosa mai si nascondeva.
Partimmo molto presto. L'aria era frizzante e tutto era avvolto da una nebbia leggera che si diradò poco a poco. Giungemmo davanti a un maestoso cancello di ferro battuto, che si spalancò lentamente su un viale bordato di cipressi e dopo un po', finalmente, giungemmo davanti alla casa.
Alla vista di villa Panico socchiusi gli occhi, sperando che, in questo modo, l’edificio assumesse un aspetto meno minaccioso. Era enorme, e lugubre, con le porte dal colore scrostato e sbiadito, il tetto in perfetto stile ottocentesco.
“Accidenti.” mormorai, fermo in mezzo al prato, con gli occhi fissi sulla casa.
Mio padre, che aveva appena terminato di scaricare gi attrezzi, mi chiamò.
“Avanti, muoviti! Abbiamo un gran lavoro da fare.”
Con un sospiro, diedi uno sguardo al giardino. Anche quello aveva un aspetto inquietante, racchiuso da alti muri di pietra grigia, ricoperti di vite americana dal colore rosso sangue. E sembrava abbandonato da anni.
“I proprietari non sono in casa.” disse mio padre, porgendomi un rastrello. “Abbiamo tutta la giornata per sistemare questo disastro.”
Presi l’attrezzo e, mentre lui sistemava il tagliaerba, mi addentrai verso il lato opposto del parco. Cominciai a rastrellare il terreno, raccogliendo le foglie ammucchiate sull’erba, quando, improvvisamente, sentii un rumore sinistro, secco, come di un ramo che si spezzava.
“Papà?” 
Benché la mia intenzione fosse di parlare forte, la voce mi uscì soffocata. Nessuno rispose. 
Feci un passo incerto, poi un altro, finché un fruscio alle mie spalle mi bloccò.
Sarà uno scoiattolo, pensai. In fondo, mi trovavo in un giardino enorme, ed era normale che ci fossero degli animali. Subito dopo, però, mi ricordai che quello era il giardino di Villa Panico, e che quindi sarebbe stata una fortuna che in giro non ci fossero bestie feroci o chissà quale altra orribile creatura.
“Papà?” ripetei, con voce ancora più flebile. Ancora una volta, il mio richiamo rimase sospeso nel nulla. Decisi di raggiungere mio padre, quando mi accorsi della breccia nel muro, nascosta dall’edera. La curiosità è uno dei miei peggiori difetti e anche quella volta, nonostante la paura che mi faceva quel posto, non riuscii a resistere alla tentazione di scoprire cosa c’era dall’altra parte. Poggiai il rastrello e mi affacciai. Ci passavo per un pelo.
Entrai nel cunicolo e, muovendomi a fatica, giunsi dall’altra parte. Strisciai fuori e mi guardai intorno.
All’improvviso, non fui più sicuro di dove mi trovavo. Era una giornata bellissima e l’aria profumava di fiori ed erba appena tagliata. Potevo sentire in lontananza il ronzio del tagliaerba di mio padre. Mi sarei preso di sicuro un’altra sgridata per essere sparito mentre lui lavorava duramente per sistemare il giardino dei Panico, ma guardandomi intorno mi dissi che ne sarebbe valsa la pena.
Sembrava che tutti i colori della natura si fossero riuniti in quello spazio minuscolo. Trattenni il fiato, quando mi resi conto che erano in piena fioritura anche specie che in quel periodo sarebbero state assolutamente fuori stagione. Il giardino era avvolto da un’aura misteriosa, come se fosse fuori dallo spazio e dal tempo. 
Al centro c’era una meridiana (a scuola avevo imparato che si trattava di un antico “orologio solare”) in pietra, circondata da campanule, anemoni, mughetti, fresie e altri fiori che non riuscivo a riconoscere. Un profumo fragrante aleggiava nell’aria e le rose rivestivano tutte le mura interne.
All’improvviso, mi accorsi di non essere solo. Seduto su una pietra, nel mezzo del giardino c’era un ragazzo. Portava abiti dal taglio antiquato e il suo viso aveva un pallore che lo rendeva quasi trasparente. Mi fissava con un’espressione interrogativa.
“Salve.” salutai, imbarazzato per essermi fatto sorprendere in un posto dove non avrei dovuto essere.
“Chi sei?” chiese lui, con voce pacata. “Non viene mai nessuno qui.”
Avanzai di qualche passo.
“Mi chiamo Daniele. Mio padre si sta occupando del giardino della villa.”
Il ragazzo annuì.
“Io sono Michele.” si presentò. “Michele Panico.”
Iniziammo a parlare e scoprimmo presto di avere un sacco d’interessi in comune, anche se mi sembrava che Michele fosse rimasto un po’ indietro nel tempo su alcuni argomenti.
“Sono molti anni che non esco da qui.” mi disse. Pensai che fosse ammalato, ed ebbi compassione di lui.
Senza accorgerci del tempo che passava, mentre l’ombra della meridiana si spostava sul quadrante di pietra, continuammo a parlare finché il sole scomparve dietro le alte mura che circondavano il giardino.
“Daniele!” La voce di mio padre risuonò forte dall’altro lato. “Dove sei finito? E’ ora di andare!”
Stringendomi nelle spalle, sorrisi a Michele.
“E’ meglio che vada. Sarà già abbastanza in collera perché sono sparito per tutto il giorno invece di aiutarlo.”
Anche il ragazzo Panico sorrise.
“E’ tuo padre, e ti vuol bene, anche se qualche volta è severo. Non avercela con lui.”
“Spero di rivederti presto.” dissi, tendendogli la mano.
Senza prenderla, rispose con voce triste: “Non credo che sarà possibile.”
Non ebbi il tempo di replicare.
“Daniele!” Feci un rapido cenno di saluto e m’infilai di nuovo nel cunicolo.
Quando fui dall’altra parte, raggiunsi mio padre accanto alla macchina. Aveva già caricato gli attrezzi e mi rivolse uno sguardo truce.
“Bell’aiuto! Dov’eri sparito?”
Non cercai di giustificarmi.
“Scusami, papà.” La mia aria contrita lo dissuase dal rimproverarmi oltre.
“Avanti, sali in macchina.”
Obbedii.
“Papà, i Panico hanno un figlio?” chiesi, mentre metteva in moto.
Inaspettatamente, mio padre trasalì e l’auto si spense. Il suo sguardo si fece triste, mentre cercava di riavviare il motore.
“L’avevano. Si chiamava Michele ed è morto circa vent’anni fa. Aveva la tua età.”
Per alcuni istanti pensai di non aver capito bene. Poi un brivido mi fece drizzare i peli sulla nuca, mentre mio padre continuava a parlare e l’auto si avviava lungo il viale di cipressi.
“E’ una storia troppo triste.” disse. “Andiamo a casa.”
Mi voltai indietro e vidi la villa ergersi scura nella luce del crepuscolo, in mezzo ai prati che papà aveva sistemato. Adesso che il giardino era perfettamente in ordine, la casa non era più inquietante, ma solo triste. Lo sguardo mi cadde sulla grande finestra del primo piano e vidi una figura pallida che alzava la mano in cenno di saluto.
Quando risposi, mi parve che il fantasma di Michele Panico mi sorridesse.






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