Polgara la Maga, D. e L. Eddings
Prima che nostro padre ritornasse dalla sua missione in Mallorea,
Beldaran era quasi esclusivamente mia. Ma poi le cose cambiarono. Ora i suoi
pensieri, che un tempo dedicava solo a me, andavano spesso a quel vecchio
furfante fradicio di birra, e io me la prendevo tremendamente.
Una sera, parlando nel linguaggio tutto nostro, osservò: «Non
potresti almeno pettinarti, Pol?» Era ossessionata dall’ordine, e la mia
indifferenza verso l’aspetto esteriore la disturbava parecchio.
«A che pro? È solo una perdita di tempo.»
«Hai un aspetto tremendo.»
«Chi se ne importa?»
«A me importa. Siediti, che ti do una sistemata.»
E così, divenne una specie di rituale che si ripeteva quasi ogni
sera, e ammetto che mi rendeva felice, perché mentre Beldaran si dava da fare
con i miei capelli concentrava tutta la sua attenzione su di me, invece di
rimuginare su nostro padre.
In un modo tutto particolare, il risentimento ha plasmato l’intera
mia esistenza. Ogni volta che lo sguardo di Beldaran si faceva cupo e distante,
sapevo che stava pensando a lui, e non sopportavo la separazione implicita in
tutto ciò. Forse è per questo che ho cominciato a camminare molto presto:
dovevo sottrarmi alla malinconia di quello sguardo.
Questo mandò fuori di testa zio Beldin. Aveva messo un cancelletto
alla sommità delle scale, ma non riusciva a escogitare una chiusura che io non
fossi capace di aprire quando ero presa dalla smania di uscire. Avevo (e ho
ancora, suppongo) una natura indipendente e non accetto ordini da nessuno.
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